La storia, interamente moderna, della fortuna del trattato “Sul sublime” si colloca sotto il segno della sua periodicamente ribadita attualità. A questo topos non si sottrae neppure quest’ultima edizione italiana, che si propone addirittura di offrire una lettura post-moderna dello Pseudo-Longino e che, a questo scopo, include fra l’altro in appendice come post-fazione uno scritto di Harold Bloom, massimo teorico del ‘misreading’, che è più propriamente una recensione al libro di Thomas Weiskel sul sublime romantico. Da Boileau in poi, il fraintendimento attualizzante è stato il fattore decisivo nella recezione moderna di questo trattatello di incerto padre e di incerta datazione (al seguito degli ultimi commentatori, Lombardo pensa anch’egli al I secolo d.C.). Carattere comune di tutte le riscoperte dell’attualità dello Pseudo-Longino è l’idea che esso, nell’era tardo-antica, per primo abbia dischiuso all’artista e, in particolare, al poeta l’orizzonte di una nuova libertà espressiva, sconosciuta in epoca classica. Tale è, ad esempio, il senso della sua riscoperta all’indomani del declino della poetica rinascimentale di matrice aristotelica, col conseguente affermarsi, in luogo di una poetica dell’imitazione, di una poetica dell’invenzione, fino alle estreme e più radicali riprese romantiche. Ora, il fraintendimento moderno, legato all’affermarsi delle nuove istanze di libertà del soggetto borghese, si rifà comunque ad un’ambiguità reale e feconda del trattato dell’Anonimo. Il concetto di ‘hypsos’, infatti, se per un verso costituisce uno fra i genera dicendi della tradizione retorica discendente da Teofrasto, per l’altro rinvia anche ad un orizzonte, quello della retorica pre-aristotelica, in cui esso serviva a designare lo slancio del poeta verso l’assoluto.
In forza di quest’ambiguità costitutiva dello ‘hypsos’, che è insieme genere letterario e condizione di possibilità di tutti i generi, la storia della sua recezione moderna finisce inavvertitamente col diventare individuazione della linea di confine lungo la quale, a partire dal Settecento, prende a delinearsi, in uno con la dissoluzione della retorica tradizionale, la nuova autonomia dell’estetica. La tensione inscritta nello ‘hypsos’ descritto dall’Anonimo è diventata paradigmatica per la stessa storia del concetto di sublime in età moderna, configurandosi ora non tanto come confronto fra sublime in quanto stile e sublime in quanto essenza della poesia, bensì come problema dei limiti e dei diritti della sfera estetica. Dialetticamente storicizzato ed espunto in favore del primato del “bello” dai grandi sistemi dell’idealismo tedesco, i quali hanno difeso fino al feticismo l’immanente autonomia dell’opera, il sublime riconquista il suo primato in seno all’estetica contemporanea – da Adorno a Lyotard, fino appunto a Bloom – grazie anche al sempre rinnovato fraintendimento attualizzante dello ‘hypsos’ pseudo-longiniano.
Contro l’immota e sterile perfezione del “bello”, lo ‘hypsos’ riporta l’artista alle sorgenti della sua ispirazione, additandogli quell’al di là della forma da cui solo può muovere, per farvi ritorno, l’opera.
(recensione pubblicata per l’edizione del 1987)
recensione di Carchia, G., L’Indice 1987, n.10